lunedì, Maggio 6, 2024
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La povertà dell’abbandono e la terapia della prossimità

Al recente festival di Sanremo ha suscitato grande emozione il monologo dell’artista Giovanni Allevi, che ha raccontato l’esperienza personale della malattia, del dolore e della sofferenza causati da un mieloma che lo ha tenuto lontano dal pubblico per due anni. “Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze”. Parole pronunciate con il tormento di chi ha vissuto una condizione nuova e improvvisa a cui non era preparato, e che ha cambiato irrimediabilmente la vita e le prospettive di una persona.

La malattia che irrompe inaspettata nella vita, lo sappiamo, è da sempre una compagna della condizione umana. Ma negli ultimi anni il confronto con essa è stato estromesso per principio dal consesso sociale. Se nell’antichità e nel Medioevo il malato, il lebbroso – come ricorda la vicenda di Francesco d’Assisi – veniva anche per legge tenuto ai margini dell’abitato con un senso di repulsione, esclusione e condanna, oggi succede qualcosa di analogo. La cultura dominante dell’individualismo e dell’efficienza rende infatti indifferenti e spietati verso chi “non serve più”, verso i malati come ad esempio gli anziani e i disabili. Ed ecco allora anche nell’Italia del 21° secolo un continuo fiorire di Istituti, case di riposo, di strutture “ibride”situate volutamente fuori dai centri urbani, seminascoste, spesso illegali e/o senza rispetto degli standard igienico-sanitari, dove chi è malato e/o fragile viene segregato e tenuto lontano, anche solo dalla vista degli altri.

Ma quel che è più grave è che la fragilità, l’incertezza e l’insicurezza determinate da una malattia rilevante sono spesso accompagnate dall’isolamento e dall’abbandono del malato da parte degli altri. Questo è vero in situazioni estreme: nella guerra, dove si soffre e si è soli perché manca sostegno e assistenza; lo è stato tragicamente al tempo del COVID quando tanti pazienti non hanno potuto ricevere visite e sono spesso morti da soli, lontani dai propri cari. Ma purtroppo anche in Paesi ricchi e in condizioni di pace, è sempre più frequente vedere persone malate e fragili, sole e vittime della cultura dell’indifferenza e dello scarto. Certo alla base di questa situazione ci sono colpevoli scelte politiche ed economiche che non garantiscono le risorse e l’accesso necessari alle cure; ma anche si assiste trasversalmente a una frammentazione delle figure che ruotano intorno al malato, a una mancanza di sinergia dei care-givers che – nella migliore delle ipotesi – procedono per conto proprio nella propria direzionedi intervento.

Diceva madre Teresa di Calcutta: “La solitudine e la sensazione di essere indesiderati sono le più terribili povertà

Ed effettivamente sentirsi isolati dagli altri e dal resto del mondo, abbandonati da tutti, rende poveri: fa perdere drammaticamente il significato e il senso della propria esistenza, arreca un dolore terribile – spesso superiore a quello fisico – genera una condizione esistenziale disumana.

Nella esperienza della malattia non accompagnata, chi prima sperimentava un dinamismo di relazioni e di amicizie, vissuto nell’incontro e nella frequentazione con familiari, colleghi, amici, vicini di casa, si trova improvvisamente catapultato in una realtà parallela infernale di abbandono senza futuro.

Le storie di tanti malati – ma a pensarci bene anche delle personali momentanee vicende di fragilità e debolezza – ci dicono con chiarezza che la prima terapia di cui si ha bisogno nella malattia, forse anche prima di quella medica e farmacologica!, è la vicinanza, il sentirsi oggetto di una tenerezza e attenzione che curano le ferite dell’animo.

Insomma c’è urgente necessità di un cambio di passo umano e culturale, di una nuova consapevolezza personale e collettiva verso chi è fragile, che faccia rallentare dai ritmi esasperati della propria vita affannosa, per farci prossimi e prenderci cura di chi è nella povertà dell’abbandono. Così facendo ci prenderemo cura anche di noi, ritroveremo un po’ noi stessi, il senso di un’esistenza felice perché vissuta non da soli, ma insieme agli altri.

Mario De Finis
Mario De Finis
Docente, formatore e autore di testi in ambito universitario. Credo che promuovere insieme una cultura inclusiva e di pace, ispirata da amicizia e solidarietà, possa cambiare la vita e la storia. A partire dai giovani e dai più fragili.
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