Al recente festival di Sanremo ha suscitato grande emozione il monologo dell’artista Giovanni Allevi, che ha raccontato l’esperienza personale della malattia, del dolore e della sofferenza causati da un mieloma che lo ha tenuto lontano dal pubblico per due anni. “Ho perso molto, il mio lavoro, ho perso i miei capelli, le mie certezze”. Parole pronunciate con il tormento di chi ha vissuto una condizione nuova e improvvisa a cui non era preparato, e che ha cambiato irrimediabilmente la vita e le prospettive di una persona.
La malattia che irrompe inaspettata nella vita, lo sappiamo, è da sempre una compagna della condizione umana. Ma negli ultimi anni il confronto con essa è stato estromesso per principio dal consesso sociale. Se nell’antichità e nel Medioevo il malato, il lebbroso – come ricorda la vicenda di Francesco d’Assisi – veniva anche per legge tenuto ai margini dell’abitato con un senso di repulsione, esclusione e condanna, oggi succede qualcosa di analogo. La cultura dominante dell’individualismo e dell’efficienza rende infatti indifferenti e spietati verso chi “non serve più”, verso i malati come ad esempio gli anziani e i disabili. Ed ecco allora anche nell’Italia del 21° secolo un continuo fiorire di Istituti, case di riposo, di strutture “ibride”situate volutamente fuori dai centri urbani, seminascoste, spesso illegali e/o senza rispetto degli standard igienico-sanitari, dove chi è malato e/o fragile viene segregato e tenuto lontano, anche solo dalla vista degli altri.
Ma quel che è più grave è che la fragilità, l’incertezza e l’insicurezza determinate da una malattia rilevante sono spesso accompagnate dall’isolamento e dall’abbandono del malato da parte degli altri. Questo è vero in situazioni estreme: nella guerra, dove si soffre e si è soli perché manca sostegno e assistenza; lo è stato tragicamente al tempo del COVID quando tanti pazienti non hanno potuto ricevere visite e sono spesso morti da soli, lontani dai propri cari. Ma purtroppo anche in Paesi ricchi e in condizioni di pace, è sempre più frequente vedere persone malate e fragili, sole e vittime della cultura dell’indifferenza e dello scarto. Certo alla base di questa situazione ci sono colpevoli scelte politiche ed economiche che non garantiscono le risorse e l’accesso necessari alle cure; ma anche si assiste trasversalmente a una frammentazione delle figure che ruotano intorno al malato, a una mancanza di sinergia dei care-givers che – nella migliore delle ipotesi – procedono per conto proprio nella propria direzionedi intervento.
Diceva madre Teresa di Calcutta: “La solitudine e la sensazione di essere indesiderati sono le più terribili povertà”
Ed effettivamente sentirsi isolati dagli altri e dal resto del mondo, abbandonati da tutti, rende poveri: fa perdere drammaticamente il significato e il senso della propria esistenza, arreca un dolore terribile – spesso superiore a quello fisico – genera una condizione esistenziale disumana.
Nella esperienza della malattia non accompagnata, chi prima sperimentava un dinamismo di relazioni e di amicizie, vissuto nell’incontro e nella frequentazione con familiari, colleghi, amici, vicini di casa, si trova improvvisamente catapultato in una realtà parallela infernale di abbandono senza futuro.
Le storie di tanti malati – ma a pensarci bene anche delle personali momentanee vicende di fragilità e debolezza – ci dicono con chiarezza che la prima terapia di cui si ha bisogno nella malattia, forse anche prima di quella medica e farmacologica!, è la vicinanza, il sentirsi oggetto di una tenerezza e attenzione che curano le ferite dell’animo.
Insomma c’è urgente necessità di un cambio di passo umano e culturale, di una nuova consapevolezza personale e collettiva verso chi è fragile, che faccia rallentare dai ritmi esasperati della propria vita affannosa, per farci prossimi e prenderci cura di chi è nella povertà dell’abbandono. Così facendo ci prenderemo cura anche di noi, ritroveremo un po’ noi stessi, il senso di un’esistenza felice perché vissuta non da soli, ma insieme agli altri.