La politica e i partiti

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di Vincenzo Vacca.

In tutte le conversazioni che facciamo, una frase che non manca mai e che nessuno osa contraddire è: “non ci sono più i politici di una volta”.

Indubbiamente, ha un fondamento di verità questa affermazione, però, quasi sempre, vuole essere esaustiva in ordine ad una situazione complessa che si trascina da decenni e che si contraddistingue da un fatto che rappresenta un vulnus per la democrazia liberale: lo scettro delle decisioni sostanziali che incidono nella vita degli esseri umani non vengono più assunte da un potere democratico che abbiamo conosciuto dagli anni del secondo dopoguerra fino agli anni ’80.
Infatti, nel corso del menzionato decennio, assistiamo a una accelerazione di un fenomeno che aveva avuto dei segnali già negli ’70. Un fenomeno che vedeva un esautoramento del potere effettivo che promanava da una serie di regole fondanti e fondamentali e che costituiva il normale vivere all’interno di uno Stato democratico. Le assemblee elettive sulle quali trovavano legittimità gli organi esecutivi riuscivano a determinare le scelte statuali che incidevano concretamente sulla vita collettiva.
Questo avveniva in una cornice di garanzie democratiche che non solo tendevano a tutelare le libertà personali, ma promuovendo il confronto in una dialettica plurale, non senza difficoltà, sviluppavano in modo non elitario la partecipazione diffusa della cittadinanza nell’agone politico.
Tutto ciò avveniva perché c’era la consapevolezza che la politica determinava il miglioramento o il peggioramento della vita quotidiana. Lo scettro del principe era nelle mani dello Stato e questo, quindi, poteva e doveva intervenire nella gestione della cosa pubblica.
A tal proposito, voglio ricordare, ad esempio, che con la crisi del centrismo alla fine degli anni ’50, nacque la stagione del centro sinistra che avviò una serie di riforme che incisero concretamente nei confronti dei ceti popolari.
Ricordo quella stagione per evidenziare che la politica in quegli anni, se animata da una vera volontà di iniziare un processo di cambiamento, all’ epoca si diceva: “fare le riforme di struttura”, aveva la possibilità di orientare gli indirizzi economici del Paese.
Tutto questo non aveva una valenza positiva solo di carattere economico, ma anche nella costruzione di una identità collettiva, perché il popolo non è una identità a prescindere, è il portato di un sistema di credenze, della condivisione di valori che sono il risultato di un fatto storico: l’ azione politica e culturale.
Pur non disconoscendo l’ importanza di una pluralità di organismi sociali, restava e resta centrale l’ utilità non sostituibile dei partiti.
Partiti che traevano origine da visioni complessive della società. Avere una visione non significa essere dei visionari, ma avere un progetto alternativo all’ordine  esistente delle cose, intrecciato ad una consapevolezza della gradualità e della radicalità del processo di cambiamento.
Espresso in altri termini, era necessario, ed è ugualmente necessario adesso come allora, una cultura politica.
I partiti non erano solo ideologia, programmi e comando. Essi rappresentavano soprattutto il canale di scorrimento per la promozione umana di un popolo arretrato e chiuso in sé stesso, dopo vent’anni di fascismo, realizzando un lungo periodo di alfabetizzazione, civilizzazione e presa di coscienza di immensi plebi, abituate all’ obbedienza servile o alle rivolte violente, spontanee e di breve durata.
Come dicevo, negli anni Ottanta il contesto socio economico cambiava: qualcosa di profondo si era inceppato nel meccanismo democratico e della rappresentanza. Prendeva piede, soprattutto, un processo mondiale di restrizione della democrazia, ma in Italia venivano create le premesse del crollo del sistema dei partiti del 1992. Da quell’ anno, sparivano i pilastri della democrazia repubblicana, e pochi comprendevano che con essi si interrompeva il principale canale di comunicazione tra le élite e il popolo.
Pur nella consapevolezza che i vecchi partiti si erano degenerati, la loro fine, tuttavia, non significò l’ avanzata di nuove forme politiche adatte a rappresentare la società italiana così profondamente cambiata.
Per motivi di spazio, non è possibile approfondire la variante italiana della crisi della politica e, pertanto, della crisi della democrazia.
Una tematizzazione della crisi della democrazia, sia a livello nazionale che su scala mondiale, è una cosa da fare continuamente, perché è fuori di dubbio che, se la politica non riesce ad incidere significativamente sulla vita quotidiana delle persone, ne scaturisce un problema serio di democrazia che tende a diventare un involucro formale.
L’ antipolitica trae origine non solo e non tanto da una questione morale, spesso strumentalizzata per indebolire maggiormente la politica, ma anche e innanzitutto dalla percezione di una irrilevanza degli istituti di rappresentanza politica.
A livello mondiale, quella che chiamiamo globalizzazione ha fortemente indebolito la capacità degli Stati di affrontare efficacemente di volta in volta le problematiche che si delineano all’interno degli Stati stessi.
A mio parere, perché, mentre l’ economia e la finanza si muovono con modalità transnazionali, la politica agisce ancora con una limitatezza territoriale ovvero entro i confini di un determinato Stato. Sto parlando della crisi delle Nazioni che non riesce a porre limiti agli spiriti animali del turbo capitalismo.
Un eventuale trionfo definitivo del sovranismo che per fortuna ha avuto una battuta d’ arresto, di fatto, costituirebbe un ulteriore e drammatico arretramento nella capacità di mitigare il potere sovranazionale capitalfinanziario.
Ecco perché una ricostruzione dei partiti e della politica non può non partire da una visione e da una azione pratica quanto meno europee.
Solo gli Stati continentali possono avere una funzione effettiva di orientamento della economia e della finanza in modo tale da impostare uno sviluppo economico sostenibile e generatore di benessere economico diffuso.
Credo che si possa affermare che, dopo anni di indecisioni e di miopie politiche, finalmente l’ Unione Europea ha deciso, non senza perduranti difficoltà e resistenze, di attivarsi in una logica continentale.
Non è esagerato sostenere che i provvedimenti che l’ U.E. sta prendendo negli ultimi mesi possono essere paragonati a quelli rientranti nel piano Marshall del secondo dopoguerra. Ma la cosa ancora più importante è rappresentata dal fatto che l’ Europa sta decidendo di avere un suo ruolo nella nuova dimensione geopolitica mondiale, in quanto per necessità e per convinzione non c’è più la “copertura” statunitense.
Ai fini della rivitalizzazione della politica, si potrebbe già pensare, qui e ora, alla costruzione di un welfare europeo.
Questo comporterebbe un cronoprogramma di istituzione di figure ministeriali europee, come quella del Ministro dell’ Economia e di diversi altri.
È molto interessante la proposta dell’elezione da parte di tutti gli elettori europei di un Presidente del Consiglio dei Ministri europeo.
Comunque, vedremo che corso ulteriore prenderanno queste importanti questioni, ma non deve mai mancare l’ attenzione e la pressione dell’ opinione pubblica, nonché delle formazioni politiche e sociali di ispirazione europeista.