Editoriale – Pulsioni autoritarie

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di Vincenzo Vacca

Nel nostro Paese, in tutta la sua storia unitaria, c’è sempre stato un fondo oscuro, un viluppo di sentimenti e risentimenti che hanno guardato con forte timore a ogni forma di cambiamento, di trasformazione. Un corpus di soggetti trasversale alla società civile, politica e istituzionale che a ogni cenno di innovazione  si mobilitiva, e spesso tramava, per evitare che si potesse in qualche modo cambiare. Non è un caso che uno degli episodi che caratterizzarono l’inizio della nostra storia unitaria furono le cannonate di Bava Beccaris che causarono almeno un centinaio di morti. Una sordida paura della mobilitazione popolare che ha visto attraversare fino al secondo dopoguerra le componenti più retrive sia delle Istituzioni, sia della società. Le rivendicazioni dei ceti popolari viste solo come un problema non da affrontare, ma da soffocare, da reprimere. Non è un caso che la nostra Costituzione è imperniata anche sul riconoscimento, sottolineo riconoscimento, non concessione, della dialettica politica democratica, anzi facendo di questa “il sale della democrazia” come ebbe a dire il Presidente Ciampi. La nostra Costituzione fu per decenni invisa, e lo è ancora, alle componenti ultraconservatrici e reazionarie del nostro Paese.

Come dicevo all’inizio, esiste un filo rosso della nostra storia, rappresentato dalla paura del cambiamento, che è stato uno dei motivi principali per i quali si è accettato l’ instaurazione di una dittatura fascista come risposta alle rivendicazioni emerse nel biennio rosso. A scanso di equivoci, evidenzio che ogni evento storico, e poi soprattutto un evento come quello del fascismo, è determinato da una serie di concause, ma volevo sottolineare la paura del cambiamento che, come un fiume carsico, ha attraversato sempre l’Italia. Anche nel secondo dopoguerra, nonostante le drammatiche conseguenze della guerra voluta dal fascismo, quindi, da una dittatura, ha continuato a vivere questa continua resistenza a ogni forma di evoluzione sociale, politica, di genere. Non mi riferisco solo a una difesa, spesso criminale, di interessi che venivano visti messi in discussione, ma quasi un riflesso condizionato a evitare di uscire da canoni sociali e comportamentali ritenuti inviolabili, pena la distruzione della società. Dato che uno dei pilastri di un certa struttura sociale è basato sulla subalternità femminile, qualsiasi comportamento della donna ritenuto diverso da quello che si aspetta una certa componente della società, viene quasi istintivamente denigrato, attaccato con violenza verbale, ma anche fisica. Basti pensare alle cose che sono state dette nei confronti di Silvia Romano e non solo sui social, ma addirittura nelle Aule Parlamentari. Chi ha pronunciato quelle intollerabili parole nei confronti della cooperante italiana sequestrata. e per fortuna liberata, sapeva di parlare a una parte non piccola del Paese che, nonostante tutto, è rimasta sostanzialmente misogina, ma anche ferocemente ostile a stili di vita diversi dalla maggioranza.

Tornando al discorso iniziale, la costante reazionaria del Paese, fino agli anni in cui erano presenti i partiti di massa, veniva intercettata da questi ultimi e, in qualche modo tacitata. Un partito complesso come la Democrazia Cristiana, in mancanza di una destra repubblicana, ha avuto anche una importante funzione di accogliere al suo interno certe pulsioni antidemocratiche, ma di normalizzarle e di provare a inserirle, in una normale dialettica democratica. Non a caso, Moro parlava di una “democrazia difficile“, preoccupato di una eventuale saldatura di posizioni moderate con quelle reazionarie che storicamente hanno sempre determinato svolte autoritarie.

Con la fine dei partiti di massa che, naturalmente, avevano anche una serie di contraddizioni, un certo filone apertamente antidemocratico non ha avuto più argine, anzi è stato abilmente alimentato da certe formazioni politiche. Gli è stato dato voce e rappresentanza, costruendo ad arte delle supposte motivazioni. Certamente, tutto ciò è stato facilitato dai social che, tra gli aspetti negativi, danno la possibilità a tutti, senza alcun filtro, di dire la propria opinione su tutto.

Come se ne esce? È difficile indicare soluzioni a questo tipo di degrado culturale e politico. Credo, però, che un inizio di fuoriuscita stia nella creazione e nel rilancio di organismi intermedi della società e della politica. Sarebbe un modo di reagire alla frammentazione sociale, alla solitudine moderna. Nella consapevolezza che siamo da decenni una società complessa e, pertanto, la organizzazione sociale e politica deve tenere in conto i nuovi e diversi bisogni, altrimenti la banalizzazione di ogni tematica diventerà imperante nel nostro Paese.