Foto di Luciano Romano per il Teatro di San Carlo di Napoli
La regia di Jetske Mijnssen del “Roberto Devereux” di Gaetano Donizetti in scena in questi giorni al Teatro di San Carlo di Napoli, si muove sulla stessa cifra stilistica utilizzata anche per le due opere andate in scena nelle stagioni precedenti del trittico donizettiano dedicato ai Tudor, “Anna Bolena” e “Maria Stuarda”, rimarcando gli aspetti psicologici dei personaggi, soprattutto quelli femminili. Viene privilegiata la tessitura emozionale, claustrofobica e passionale dell’opera. Mi è sembrata una scelta quantomeno coerente, anche se là si può ritenere parziale, visto che è un tema centrale della narrazione. Spoglia, in buona parte, i personaggi dal ruolo, dall’esercizio del potere, e mette in risalto la loro umanità, il loro carattere e la lacerazione sentimentale dei loro conflitti amorosi.
All’inizio dell’opera, non a caso, Elisabetta, rivolta a Sara, e riferendosi a Roberto, canta: “Fido alla sua regina? E basta, o Sara? Uopo è che fido il trovi Elisabetta”.
La Mijnssen ambienta l’azione in quello che si configura come un boutique hotel, dove Sara e le dame servono la Regina. Devereux potrebbe essere tornato dall’Irlanda, ma sembra invece ritemprato dopo un soggiorno alla spa. Mentre la scena iniziale si svolge in una stanza angusta, che occupa un terzo del palcoscenico, la scenografia si espande rivelando persone che ballano in abito da sera intorno al palco. Lo spettatore è invitato a concentrarsi sul dramma privato di Elisabetta, quello che avviene nella “stanza”, nella espansione prossimale del sè, di cui il popolo, gli “altri”, sono ignari. Allo stesso modo, più avanti i Nottingham hanno il loro grande scontro, accompagnati da un trenino che gira in tondo e due bambine intente nel gioco, ricordando ancora una volta la vita domestica lontana dalle implicazioni dell’arte di governare.
L’apertura del secondo atto, con i pari del regno schierati intorno al palco, con Elisabetta al centro, è efficace e toccante, di grande impatto visivo. La solitudine e il tormento interiore di Elisabetta raggiungono l’acme, quando lei cade affranta, mentre Devereux canta “Come un spirto angelico”. Intanto Sara, schiacciata poco prima dalla rabbia narcisistica del marito, è seduta sul palco, legata a una sedia con la sciarpa donatale da Devereux. Anche la scena finale rimane di grande impatto visivo, con Elisabetta sola in una stanza-palcoscenico, la stanza dell’inizio, più spoglia, che scende dall’alto a circondarla, in modo da rendere ancora più evidente il suo isolamento. L’isolamento è il grande tema che investe i quattro personaggi centrali dell’opera: è il senso di solitudine che attanaglia l’animo di colui che ama e si scontra con la fragilità e le paure dell’altro, che contamina i rapporti di coppia al punto da trasformarli in uno scontro crudele, in un ring. Il background scandinavo di Jetske Mijnssen, la scelta di privilegiare la visione dell’immobilità, della lentezza, affondano le radici nei drammi borghesi di Ibsen e Strindberg, nelle rarefatte raffinatezze stilistiche di Bergman e ben si adattano allo sfondo originario dell’opera, alla cupezza e ai fasti delle corti inglesi.
di Giuseppe Iaculo
Foto di Luciano Romano per il Teatro di San Carlo di Napoli
This post was published on Lug 23, 2025 10:06
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