Foto di Fabrizio Sansoni
Nella splendida cornice della Basilica di Santa Maria in Aracoeli due secoli di musica, dal Barocco al Novecento, nel lavoro toccante e potente di Romeo Castellucci, Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia. Un rito collettivo dedicato all’oratorio Stabat Mater con musiche di Giovanni Battista Pergolesi (del 1736, su testo attribuito a Jacopone da Todi), e del compositore contemporaneo Giacinto Scelsi. L’allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, in coproduzione con Grand Théâtre de Genève, Opera Ballet Vlaanderen e De Nationale Opera è in scena dal 28 al 31 ottobre con la direzione d’orchestra di Michele Mariotti.
Si tratta di una versione scenica, appositamente rinnovata, dopo essere stata presentata nel maggio del 2025 nella Cathédrale Saint-Pierre a Ginevra: un nuovo progetto di Castellucci, famoso per le sue performance teatrali e installazioni immersive, e per aver arricchito il linguaggio del teatro europeo, che unisce al barocco liturgico di Pergolesi i Quattro Pezzi per orchestra (ciascuno su una nota sola) e Three Latin Prayers per coro a cappella di Scelsi. A cura di Castellucci anche le scene, i costumi e le luci con la collaborazione artistica di Maxi Menja Lehmann, Paola Villani (collaboratrice alla scenografia), Clara Rosina Straßer (collaboratrice ai costumi), Benedikt Zehm (collaboratore alle luci) e Aurélien Dougé (coordinatore dei movimenti).
«Un dialogo fra la musica di Pergolesi e quella ascetica, timbrica e monodica composta da Giacinto Scelsi – genio assoluto del XX secolo che ricercò, per tutta la vita, il suono assoluto e che, per una rara coincidenza, visse a poche centinaia di metri da Santa Maria in Ara Coeli. Stabat Mater – stava la Madre, nel dolore, ai piedi della croce. Così comincia il poema di Jacopone da Todi. Bastano queste due parole ora: un predicato verbale e un soggetto. L’assenza di complemento di luogo significa ovunque, ma anche adesso. La musica di Pergolesi ha dato forma, una volta per tutte, a questo stare universale e muto davanti alla perdita. Non ci sono spiegazioni, né le parole possono dire – il commento di Castellucci – Anche la presentazione nella Basilica di Santa Maria in Ara Coeli di questo oratorio non fornisce risposte. Dopo essere stato creato nella Cattedrale di Ginevra, la “Roma protestante” di Calvino, questo Stabat Mater si presenta ora nel centro della Roma cattolica, nella chiesa stretta tra le forme del potere militare e civile, presa, si direbbe, nella morsa temporale costituita dall’Altare della Patria da una parte e dal Campidoglio dall’altra. Una madre senza figlio, gettata a terra, tra le statue equestri del potere».
Protagoniste il soprano ungherese Emőke Baráth, specializzata nel repertorio barocco e classico, e il mezzosoprano Sara Mingardo, nome di punta del campo della musica antica e non solo: madri e sorelle che vengono alla luce al momento, sono letteralmente “partorite” attraverso i movimenti scenici di un gruppo di attori all’inizio dell’oratorio di Pergolesi, e dopo l’esecuzione dei quattro pezzi di Scelsi con i professori dell’orchestra e il Maestro Mariotti in tuta mimetica ed elmetto. Madri, sorelle e figlie, quindi, immerse in doglia e pianto, per la perdita del figlio e per la distruzione più vasta causata dalle guerre. Il rimando è alle atrocità che insanguinano Palestina, Sudan e Ucraina, e a temi universali come il dolore assoluto, senza sollievo o rimedio.
Nel programma di Sala, Michele Mariotti parla dei quattro pezzi per orchestra di Scelsi come di “sedute psicoanalitiche, un viaggio nella mente, orrorifico, tremendo, come quando mettiamo la testa sott’acqua e non ne usciamo. Viviamo in un tempo di guerra, e la guerra fa impazzire.”
Riferendosi invece allo Stabat Mater di Pergolesi, dichiara: le prime parole della preghiera sono centrate sulla sofferenza di Maria durante la crocifissione del figlio, la metafora del pianto viene disegnata dalle due voci di soprano e contralto che entrano in imitazione a breve distanza, creando un atmosfera dolente, fluttuante, d’angoscia”.
La partecipazione dei bambini del Coro di voci bianche del Teatro dell’Opera di Roma amplifica la percezione della tragicità. I bambini entrano in scena coprendosi gli occhi, e poi la testa, togliendosi le scarpe e restando distesi, inermi, sollevano le mani al cielo e poi abbracciano e accarezzando delle statue di Cristo, mutilate, segnate dalla distruzione e più grosse dei loro corpi. Sono costretti a lasciare da parte il pallone, che alcuni di loro tengono con sé, restando testimoni e attori attoniti della tragedia. Nel finale spariscono nel proscenio, dove sono già i musicisti, e cantano le prime delle tre preghiere latine di Giacinto Scelsi (Three Latin Prayers), scelte per chiudere lo spettacolo: l’Ave Maria e il Pater Noster. Le due madri-sorelle si sono intanto spogliate dei loro abiti di lutto, lasciando apparire delle vesti bianche e, dopo i bambini, anche il contralto scende dal palco, si dissolve nelle quinte. Resta in scena il soprano, sola tra i corpi mutilati dei cristi, e canta l’Alleluia. Appare una grande croce con un giovane uomo aggrappato ad essa e girato di spalle, un Cristo inerme e fiaccato… Il soprano e la croce svaniscono nel buio delle cappelle della chiesa. È come se tutti i protagonisti del rito fossero in un luogo altro, dove forse trovar pace. La grande porta centrale della Chiesa si spalanca. Applausi prolungati, pubblico in attesa… Nessun artista apparirà in proscenio.
Giuseppe Iaculo
This post was published on Ott 30, 2025 22:05
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