La vera informazione

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Viviamo in una epoca nella quale possiamo dire, senza tema di smentita, che abbiamo una opinione pubblica polverizzata. Crediamo di essere iperinformati, ma in realtà, nella migliore delle ipotesi, saltiamo da una notizia all’ altra. Da una indignazione che dura qualche giorno per passare ad un’ altra indignazione per qualche altro evento. Ma anche questa durerà poco, una volta esaurito l’ impatto mediatico.

Per quanto possa essere un sentimento nobile, l’indignazione non è un modo efficace per incidere sullo “status quo”. Anzi, potrebbe essere solo un modo di certificare la nostra impotenza come cittadini, i quali per acquietare le proprie coscienze, esprimono la loro indignazione. Parafrasando De André, noi ci costerniamo, ci indignamo e poi gettiamo la spugna con grande dignità.
Tra le cause di questo stato di apparente effervescenza, ma di sostanziale subalternità, annovererei la confusione, un po’ autoindotta un po’ creata appositamente, che si fa tra informazione e formazione che sono, naturalmente, due cose diverse.
Il ritenere di poter seguire, quindi, gli accadimenti del mondo limitandosi a leggere le notizie solo sui social e pensando di potersi formare una opinione munita minimamente di un senso compiuto attraverso vettori di informazione che per loro natura adottano un linguaggio sincopato e convulso, sta originando gravi degenerazioni.
Snobbiamo la lettura dei giornali anche per l’infausta idea che per aggiornarci è possibile, anzi ormai lo pretendiamo, farlo in modo gratuito. Un atteggiamento che esprime, tra l’altro, un disprezzo per il giornalismo. Infatti, quest’ultimo rientra a pieno titolo nella serie di professioni che hanno perso completamente o quasi autorevolezza in un periodo come il nostro in cui dominano un individualismo esasperato intrecciato a una diffusa mediocrità. Non è un caso che anche i giornalisti vengono considerati una “casta” e anche loro sono frequentemente oggetto di rabbiose campagne anticasta.
Il venir meno del giornalismo esaspera l’immediatezza della notizia. Questa viene inevitabilmente decontestualizzata o inserita in contesti impropri. Diventiamo solo fruitori di notizie e non di narrazioni della realtà.
Il giornalismo entra, invece, nel flusso delle notizie, provando a governarle, trattenendo le notizie portatrici di senso, capaci di illuminare il quadro generale. In questo modo, seleziona le vicende, gerarchizzando i fatti, cercando una relazione tra gli avvenimenti, recuperando gli antecedenti e, infine, si proietta sulle conseguenze, illuminando gli interessi in gioco, occulti e palesi.
In tempi di trasformazioni come questi, di conseguenza, anche il linguaggio come il terreno sociale che ci sta sotto i piedi, trema. Si liquefa. E le parole tendono a separarsi dal loro senso consueto. A cambiare, come le cose, “destinazione d’uso”. Si svuotano e diventano involucri buoni per tutti gli impieghi, se non ad assumere un significato opposto a quello originario.
Inoltre, teniamo sempre a mente che nel mondo del web, quando un utente non paga, significa che la “merce” diventa l’utente stesso. Infatti, abbiamo volontariamente consentito che i grandi padroni del web si impossessassero dei nostri dati personali.
Nessun regime totalitario, per quanto feroce e occhiuto, avrebbe potuto ottenere un risultato del genere. La situazione che si è venuta a creare è questa: alcune aziende mondiali, monopoliste del web, conoscono di milioni e milioni di individui tutto o quasi, senza alcun obbligo di rendicontazione a una qualsivoglia autorità pubblica. In termini di formazione di opinioni personali, di orientamento politico, di creazione di desideri e di bisogni indotti, tutto questo avrà un peso determinante, come lo sta già avendo, nonostante che non facciamo altro che parlare di privacy, spesso completamente fuori luogo. Preservare concretamente la nostra privatezza diventa una forma di tutela della nostra umanità, della nostra individuazione che è unica, speciale, in quanto tale.
Altrimenti, diventiamo dei veri e propri protagonisti di qualche romanzo orwelliano, altro che libertà. Avremo solo la libertà di consumare, fin quando il nostro reddito ce lo consentirà.
Ne scaturisce un senso comune fatto solo di un disperato e disperante presente. Un presente che ha inglobato passato e futuro in virtù del fatto che non esiste una coerente lettura della nostra epoca. Soltanto con pensieri compiuti si riesce a dare un senso al caos del mondo, provando a dargli una direzione. Un mondo che in tutte le epoche è stato caotico, ma nell’attuale il caos  riesce  a non farsi leggere.
In una situazione del genere diventiamo facili prede del demagogo di turno che può facilmente acquisire un consenso nei suoi confronti contando sulla odierna mancanza di una capacità di contestualizzazione degli eventi che ci vedono coinvolti.
Basti pensare a quanto pesa nella costruzione del consenso la categoria della paura. La paura dello straniero, la paura di perdere il proprio fragile benessere economico, e in questi ultimi mesi, si è aggiunta la paura per la propria vita in conseguenza della pandemia del coronavirus.
La paura è l’anticamera dell’odio che è un altro odioso sentimento sul quale prosperano politicanti vari e non solo a casa nostra. I cattivi sentimenti si fronteggiano con la conoscenza e per questo è fondamentale ribaltare radicalmente le attuali modalità mediante le quali proviamo a capire quanto succede intorno a noi.
Abbiamo nel prossimo futuro delle enormi questioni di carattere nazionale e mondiale ( le migrazioni, il clima, l’ambiente, le tensioni geopolitiche e militari, l’energia, la povertà, la guerra dei dazi, il governo delle monete internazionali, etc.) per le quali occorre una vera opinione pubblica seriamente informata e attenta a come i vari protagonisti delle cennate problematiche le affrontano.
Sono consapevole che non sarà facile, se si tiene conto che sono state depotenziate le agenzie di senso. Ma se non invertiamo la rotta relativamente al rapporto tra cittadino e mondo dell’informazione, l’accezione di cittadinanza non avrà alcun senso. Potremo solo parlare di sudditanza che si caratterizza per la ricerca di protezione e non di protagonismo sociale e politico finalizzato a incidere concretamente in ordine alla gestione della cosa pubblica. Una cosa pubblica che sarà sempre più gestita da potenti privati non soggetti ad alcun argine e controllo.
di Vincenzo Vacca