Cultura

“Innocenza: il mostro che vive nello sguardo degli altri

Le luci di una città notturna e un edificio in fiamme danno inizio all’ultima opera del regista nipponico Hirokazu Kore’eda, una storia che si sviluppa tra la decostruzione e la costruzione degli eventi come se fossero tessere disordinate da rimettere una accanto all’altra. É necessario infatti arrivare alla fine del film per ricostruire tutti i pezzi, giungere a quel finale liberatorio tanto ricoperto di fango quanto abbellito da un leggero e candido sapore di momentanea libertà da stigmi sociali e da ciò che non può essere detto.
Assistiamo a un racconto che richiama il capolavoro di Akira Kurosawa “Rashomon”, ma di fatto solo nella resa tecnico-narrativa (la stessa storia descritta attraverso diversi punti di vista) poiché a differenza del suo predecessore, qui non ci sono racconti falsati o narratori inaffidabili.
Nell’opera di Kore’eda ogni personaggio ha la sua verità e la racconta attraverso il suo punto di vista, a cambiare però sono le prospettive e i modi differenti in cui le persone percepiscono gli altri individui e le loro sensibilità.

Nei primi quaranta minuti assistiamo alla prospettiva di una madre che notando il comportamento insolito del figlio, a tratti estremo, cerca di capire il perché di tale atteggiamento. Venuta a conoscenza del fatto che il figlio viene preso di mira da un maestro, si reca a scuola per saperne di più ed indagare, ma trova soltanto finto buonismo e un non empatico comportamento da parte di professori e preside. Pronta a fare di tutto pur di proteggere il figlio, gradualmente la madre scopre diverse verità su di lui che le sono ancora ignote.
La seconda parte si apre con la stessa inquadratura sulla città e sull’edificio in fiamme, ma questa volta seguiamo il punto di vista del potenziale cattivo della storia, il maestro, quel mostro che
“bullizza” il giovane protagonista…eppure tutto vediamo tranne che un uomo cattivo: il regista cosi distrugge tutto ciò che avevamo precedentemente creduto e costruito. In questa sezione il maestro si rivela quasi l’eroe del film, “vittima” delle bugie dette a suo danno dal giovane protagonista (le cui ragioni però sono ancora oscure), manca però ancora qualche tessera per ricomporre il tutto. Mentre indaga e cerca di comprendere ciò che realmente è successo, pur se innocente, è costretto a fare ammissione di colpa e a inchinarsi dinnanzi a una società che preserva il suo equilibrio ed estirpa ogni possibile elemento di distonia nell’ordine. Tutto muta in base alla prospettiva che più si preferisce adottare.
Eccoci giungere alla terza e ultima parte, dove finalmente osserviamo il punto di vista del vero protagonista dell’opera, un ragazzino che attraversa l’età dei primi tormenti interiori, le prime insicurezze ed esperienze in una fase delicata di costruzione e scoperta della propria identità. Da questo momento il film inizia a prendere un’inaspettata e in precedenza solo accennata piega omosessuale tra il ragazzino e un suo compagno di classe dal sapore delicatissimo di un primo amore nato tra i banchi di scuola. È un affetto che però al protagonista (a differenza dell’amico) incute tanta paura quanto vergogna e deve essere necessariamente taciuto ad una società dalla facciata perbenista che difficilmente accetta ciò che è “diverso” etichettandolo come “mostro” o malattia. Il tenero e delicato affetto tra i due protagonisti si manifesta gradualmente attraverso i loro giochi, nei piccoli momenti di tentata intimità, nel proteggersi e finalmente tentare di accettarsi con una metaforica corsa a perdifiato attraverso l’erba alta bagnata dal sole dopo una violenta tempesta: è la speranza di poter correre verso nuovi inizi al di là del pregiudizio.

Motivo ricorrente dell’opera e titolo del film è la parola “mostro”, “kaibutzu” nella versione originale, ovvero ciò che fa paura, un termine che nel film muta sfumatura di significato in base alla prospettiva di chi lo pronuncia: la madre lo usa etichettando i professori e il loro far nulla comportandosi come automi di fronte alla situazione presente, i professori lo usano per etichettare i genitori che li tormentano e i due bambini invece lo usano per un gioco che sono soliti fare tra loro “chi è il mostro?”; ognuno è mostro per qualcun altro nella storia. Il vero mostro però non è solo ciò che non si sa e non si vede, ma anche ciò che si desidera non vedere, ciò che è diverso e non viene accettato per ignoranza e pregiudizi di stigmi sociali, tutti elementi incarnati perfettamente nel rapporto padre-figlio del secondo giovane protagonista esplicitamente omosessuale.
A metà film, con una sconcertante spensieratezza apparente, il ragazzino rivela all’amico di avere una “malattia” (“disease” in inglese), qualcosa che non va come dovrebbe andare: è in realtà ciò che il padre gli fa credere in una esplicita ammissione di omofobia nei confronti del suo modo di essere, ovvero una condizione che deve essere assolutamente riportata allo “stato normale” per essere accettati dalla società.

In italiano è stato scelto il titolo “Innocenza” che pur non avendo quella “tacita potenza “che ha quello giapponese, pur incarna un motivo essenziale in un’opera in cui tutti sembrano colpevoli per altri, eppure tutti sono di fatto innocenti: la madre che vede suo figlio come innocente, il professore che deve difendersi dalle accuse infondate e i due bambini che incarnano invece l’aspetto più alto dell’innocenza e spensieratezza fanciullesca.
Con alcuni punti lasciati volutamente in sospeso e nel non-definito, la preside e il piccolo protagonista si incontrano in un essenziale momento nell’aula di musica quasi sul finale e, dal momento che sono due individui che hanno mentito per ragioni profonde e personali, eccoli fare ammenda l’uno con l’altro confessandosi liberamente l’indicibile. “La felicità se non può essere provata da tutti, è una cosa che non ha senso”. Un barlume di speranza si palesa tra i due, una tromba e un trombone che suonano prima flebili poi forti da farsi sentire, un suono che non sa di melodia, ma di una velata speranza di soffiare via ciò che non può essere detto: è l’indicibile che è anche inudibile alle orecchie di tutti gli altri. Ancora una volta Kore’eda indaga il mondo infantile e i suoi problemi tra il delicato mondo intero e il crudele mondo esterno.

Chiara Mazza

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