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Il PCI e l’Italia

Il 21 gennaio del 1921, nasceva a Livorno il Partito Comunista in Italia da una scissione del Partito Socialista anch’esso attraversato da una serie di correnti interne. La figura centrale dell’origine di quel nuovo partito nel panorama politico italiano era incarnato da Amadeo Bordiga il cui settarismo era così accentuato che, secondo tanti, lo stesso Lenin decise di scrivere il suo famoso libro  “L’estremismo, malattia infantile del comunismo” per rintuzzare le posizioni bordighiane.

Nel congresso di fondazione del Partito Comunista, Antonio Gramsci non prese la parola e Togliatti non era manco presente.
Bordiga era convinto che la rivoluzione proletaria era alle porte anche in Italia sull’onda dell’ entusiasmo per quello che era successo in Russia e tutti sanno, invece, cosa avvenne in Italia in quegli anni immediatamente e oltre alla fondazione di quello che si chiamava Partito Comunista – sezione d’ Italia. Bordiga aveva una visione dogmatica del marxismo ed era convinto sostenitore della incompatibilità tra socialismo e democrazia.
Ma la figura centrale del partito sarà acquisita da Antonio Gramsci che la conserverà anche dopo la sua morte e che sarà il vero teorico del partito fino, sostanzialmente, al cambio di nome in Partito Democratico di Sinistra. Un cambiamento avvenuto, a mio parere in ritardo, e sull’ onda del crollo del sistema sovietico pregiudicando, in tal modo, la nascita e lo sviluppo di una sinistra italiana non comunista.

Il Partito Comunista Italiano, grazie alle elaborazioni teoriche gramsciane, riuscì a permeare fortemente il tessuto civile dell’ Italia, pur non governando mai il Paese, infatti riuscì solo in alcuni anni settanta a far parte della maggioranza parlamentare senza avere alcun Ministero.
Antonio Gramsci era uscito dallo schema classico Borghesia/Classe operaia ed aveva evidenziato l’ importanza di tenere conto delle specificità del nostro Paese: le contraddizioni con le quali era stato costruito lo Stato unitario, il peso delle masse contadine, del ceto medio, la questione meridionale, il blocco industriale – agrario e tanto altro.
Da qui ne discendeva anche una concezione diversa del partito che non doveva essere incardinato solo sulla classe operaia, ma essere aperto anche alle altre componenti nazionali, quali gli intellettuali, i contadini, tutta una serie di soggetti non riconducibili appunto solo ai ceti operai.
È da qui che nascerà l’ idea del comunismo italiano, diretto da Palmiro Togliatti, della via nazionale al socialismo, quindi, il raggiungimento di quest’ ultimo mediante strade diverse da quelle percorse dall’ Unione Sovietica.
Grazie alle elaborazioni teoriche di Gramsci e fatte proprie in gran parte da Togliatti, si costruisce un Partito Comunista particolarissimo nell’ intero universo comunista, pur non sciogliendo mai definitivamente il nodo del rapporto con i Paesi dell’ Est e con una idea di fondo che in qualche modo giustificava i regimi politici di quella parte del mondo.
Ma il Partito Comunista ha avuto nel dopoguerra un ruolo fondamentale nel costruire la democrazia con la svolta di Salerno e con la decisione di partecipare attivamente ai lavori per la Costituzione.
Non è un caso che dal 1948 la battaglia fondamentale di quel Partito sarà la richiesta di applicare la Costituzione, definita da Scelba una “trappola”.
Negli anni successivi alla guerra, ci fu una repressione molto dura delle lotte operaie e sociali, ma il Partito Comunista non cedette mai a una risposta violenta.
Una scelta non da poco, se si pensa che il numero dei morti degli scontri di piazza fu nettamente superiore a quelli analoghi in Germania, Francia e Gran Bretagna.
Purtroppo, questo fu uno dei tratti di continuità con il passato, infatti molti prefetti provenivano dall’ epoca fascista e non avevano perso una mentalità duramente repressiva nei confronti delle manifestazioni sociali.
La battaglia per l’ applicazione della Costituzione fatta da un “partito nuovo”, da un partito di massa con due milioni di iscritti ha avuto come principale effetto una alfabetizzazione istituzionale di un popolo fino a quel momento tenuto ai margini, visto con ostilità, con preoccupazione per una sua presunta carica potenzialmente eversiva.
Non c’è mai stata in Italia una rivendicazione e una pratica giornaliera della dignità della politica che voleva dare una speranza di emancipazione ai ceti deboli della società, come ha fatto il PCI. La politica vissuta in modo totalizzante, perché interpretata come unico modo veramente capace di cambiare lo stato delle cose anche se in modo graduale.
Ma quello che va soprattutto sottolineato è il costume, lo stile di vita dei dirigenti nazionali e locali che in un tempo cinico e meschino come il nostro acquisisce una particolare luce.
Forse furono esagerate le parole di Pasolini: “…Il Partito Comunista Italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante…”, ma il PCI per tanti aspetti è stato davvero un mondo a parte non solo per l’ Italia, per l’ Occidente, ma anche per il sistema mondiale dei partiti comunisti al potere e non.
Il PCI è stato definito e vissuto certamente come un “Grande Partito” e non solo dai suoi militanti e dirigenti. È stato un luogo di identificazione per milioni di persone, ha rappresentato parti importanti della società, oltre i confini della classe operaia, svolgendo una funzione nazionale essenziale nel costruire una coscienza civile e democratica degli italiani e, se si pensa al modo di amministrare quelle che una volta si chiamavano le zone rosse del Paese, ha dato grandi prove di capacità governative.
Ma a tutto questo si è contrapposto un grave ritardo di analisi e di chiaro e definitivo distacco dall’ esperienza russa.
Il comunismo del PCI non era la stessa cosa di quello sovietico, molte ed evidenti erano le differenze; ma un comunismo del PCI, per quanto originale, c’era stato; in esso si era riconosciuta una comunità nella quale convivevano certamente posizioni  diverse, ma concordi nell’ accettarlo e viverlo come denominatore comune.
In conclusione, voglio fare emergere che non sono tra quelli che amano rifugiarsi nella nostalgia, che di fronte alle nuove sfide volgono lo sguardo all’ indietro. Ogni epoca storica ha i suoi problemi, le sue sfide. Se c’è un lascito morale e politico della tradizione comunista italiana, essa sta nel leggere attentamente le radicali trasformazioni della società e riuscire a dare le giuste risposte politiche.
Vincenzo Vacca
Vincenzo Vacca
Sono un artigiano della scrittura. Provo a scrivere non per un desiderio estetizzante, ma per un bisogno di provare a sollevare dubbi. Le certezze esibite mi inquietano. Mi ritengo un uomo che fa domande e mi incuriosiscono le risposte che, in genere, non mi soddisfano.
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